INTERVENTO DI NINO FALOTICO

PRESIDENTE CRU UNIPOL – BASILICATA

 

Care amiche, cari amici,

parto con una citazione di un grande intellettuale che ben si attaglia al nostro dibattito sul tema del mutualismo nella società del rischio.

“Ci troviamo nel mezzo di uno sviluppo sociale in cui l’attesa dell’inaspettato, l’attesa dei rischi possibili domina sempre più la scena della nostra vita: rischi individuali e rischi collettivi. È il fenomeno nuovo che diventa un fattore di stress per le istituzioni nel diritto, nell’economia, nel sistema politico e anche nella vita quotidiana delle famiglie”.

Così spiegava in un’intervista l’idea di società del rischio il sociologo tedesco Ulrich Bech, recentemente scomparso, cui si deve a metà degli anni ’80 una fondamentale e visionaria riflessione sul carattere profondo della società post industriale, società che egli definì, appunto, del rischio. Perché del rischio?

Lo vediamo oggi nel nostro operare quotidiano di sindacalisti. Il rischio, l’indeterminato, l’imprevedibile sono la costante dominante della società contemporanea. La globalizzazione ha messo in crisi lo Stato nazionale come spazio geografico di riferimento e, con esso, l’intera architettura sociale e istituzionale – si pensi al welfare state – che nello Stato trovava il suo punto di equilibrio e di compensazione dei conflitti, nonché di distribuzione delle prestazioni.

Tutto è diventato imprevedibile, e questo ha determinato e determina tutt’ora disorientamento, angoscia, paura, mettendo a dura prova la coesione sociale e la tenuta democratica.

Cos’è, ad esempio, la precarietà del lavoro se non un’espressione di questo rischio strisciante? Cos’è il populismo se non la manifestazione sul terreno politico di una società che cerca protezione dall’imponderabile e si rifugia nelle alchimie dei demagoghi. E si potrebbero fare molti altri esempi.

Dobbiamo, dunque, rassegnarci al rischio permanente?

Ovviamente no. Al contrario, dobbiamo cogliere la sfida della nuova modernità per coltivare nuovi modelli di governance per mutualizzare il rischio e rafforzare la coesione sociale delle comunità adoperando gli strumenti che la stessa modernità ci mette a disposizione.

Serve insomma un nuovo mutualismo nella società del rischio per rafforzare la comunità come luogo della cittadinanza.

È una sfida che ci riguarda tutti, sindacati e associazioni imprenditoriali, e che di tutti reclama il contributo.

Io credo che si debba procedere in due direzioni: 1) un nuovo modello di cooperazione tra capitale e lavoro; 2) nuovi strumenti di inclusione sociale.

Storicamente la Cisl considera l’impresa non già il luogo del conflitto permanente ma il luogo del dialogo possibile e della convergenza tra gli interessi dei lavoratori e quelli dell’impresa, dove le fasi temporanee di conflitto sono funzionali al raggiungimento di specifici obiettivi riformistici.

È noto che il lavoro non esiste allo stato puro in natura, ma è un derivato delle attività produttive. Per questo imprese più competitive significano più opportunità di lavoro e più benessere per le comunità.

Costruire attraverso gli strumenti contrattuali un nuovo modello di cooperazione tra capitale e lavoro significa dare corpo a quella lungimirante idea della democrazia economica in cui i lavoratori partecipano al destino della propria impresa, influenzandone significativamente la strategia.

Un nuovo rapporto tra capitale e lavoro significa confrontarsi per un più moderno sistema di relazioni industriali, dove la produttività sia distribuita sempre meno con la logica erga omnes e sempre più lì dove si crea effettivamente, evitando di confondere tra produttività e redditività. Va in questa direzione l’accordo raggiunto da Cgil Cisl Uil sul rinnovo del modello contrattuale.

In Italia siamo ancora lontani da questo modello cooperativo per ragioni di ordine storico e culturale, ma questo non vuol dire che non si possano ottenere importanti avanzamenti sul terreno della contrattazione aziendale e della bilateralità.

Serve un cambiamento di paradigma culturale nelle relazioni industriali, dunque, ma serve anche un nuovo modello di welfare state che risponda alle esigenze dell’oggi, alle esigenze di una società in cui rispetto al passato è più alto il rischio di restare soli e finire risucchiati nella trappola della povertà e dell’emarginazione sociale.

Mi riferisco, in particolare, alle migliaia di lavoratori espulsi dai cicli produttivi e che sono destinati per ragioni anagrafiche a non rientrare in azienda.

Che fare per restituire alla piena cittadinanza queste persone?

La recessione economica di questi anni ha messo a nudo le deficienze di un welfare state tarato sulla società industriale del ‘900, relativamente stabile e standardizzato, e che perciò si è dimostrato del tutto inadeguato ai bisogni di protezione che sono propri di una società del rischio.

Ecco perché ritengo non più differibile immaginare nuovi strumenti di inclusione sociale fondati sui principi di bilateralità, sussidiarietà e auto-organizzazione sociale in grado di affiancare e potenziare le prestazioni di base universalistiche del welfare state.

Proprio il welfare contrattuale è una delle frontiere più avanzate delle relazioni industriali, ma occorre intensificare gli sforzi per diffondere la pratica contrattuale nelle piccole e medie aziende.

In Basilicata, anche su sollecitazione del sindacato, sta partendo la sperimentazione del reddito minimo di inserimento, un’innovativa misura che unisce sostegno economico ad una proporzionata prestazione lavorativa, misura che serve ad attraversare la lunga notte della crisi.

Non si tratta di una mera operazione caritatevole ma di una concreta opportunità per chi ha perso il lavoro e non ha altre forme di sostegno al reddito per rimettersi in gioco.

Non è nemmeno la panacea, nella consapevolezza che solo una politica di sostegno alle piccole e medie imprese – attraverso un meccanismo di convenienze localizzative – può nel medio e lungo periodo restituire alla piena cittadinanza chi oggi vive ai margini del mercato del lavoro.

Edificare un nuovo mutualismo nella società del rischio, in conclusione, significa ripensare l’impresa come luogo della cooperazione tra capitale e lavoro e la comunità come luogo della cittadinanza; luoghi in cui si possa esplicare la personalità dell’individuo nella sua autonomia di soggetto libero e responsabile.

Tocca a noi profondere ogni sforzo per edificare quella che un grande intellettuale cattolico del secondo dopo guerra, Giuseppe Lazzati, definì “la città dell’uomo costruita a misura d’uomo”.

Grazie a tutti.